Nel campo in rapida espansione della tanatologia comparativa, cioè lo studio del comportamento degli animali verso loro conspecifici deceduti, i resoconti su una sempre più vasta gamma di taxa suggeriscono che alcuni aspetti del nostro approccio alla morte possano essere condivisi da diverse specie non umane. La letteratura scientifica nel merito è particolarmente ricca su alcuni animali, tra cui elefanti, primati, cetacei, corvidi, mentre è più scarsa invece su altre specie, tra cui giraffe, lamantini, volpi, leoni, manguste, dugonghi, foche, cavalli…
Sui cavalli ad oggi esistono solo pochi resoconti aneddotici riguardanti individui domestici. Tra i più significativi: un’osservazione del 1969 sul comportamento di una femmina il cui piccolo puledro era morto annegato, che ne riportava i segnali di distress, di contatto con il corpo del puledro tramite il muso e l’espressione di nitriti sommessi; un curioso comportamento collettivo di un branco di cavalli che stazionava in cerchio attorno al tumulo in cui era stata sepolto un loro compagno morto, riportato nel famoso libro sul lutto animale di Barbara J. King “How animals grieve” (2013); uno studio del 2016 che riportava le reazioni e i comportamenti di richiamo direzionati a cavalli morenti poco prima dell’eutanasia, descrivendo poi, dopo la morte, i segnali di ansia, inappetenza, isolamento sociale, vicinanza e protezione della carcassa da parte dei loro compagni (il che apre ovviamente una voragine sul dramma psicologico, oltre che fisico, vissuto dai cavalli allevati per la produzione di carne, soprattutto quando macellati nello stesso luogo di allevamento).
Un recente studio di Renata Mendonça e colleghi (2019), svoltosi nel nord del Portogallo, si è concentrato invece per la prima volta sull’osservazione del comportamento (diretta e attraverso fototrappole) di cavalli ferali, sia nei confronti di un puledro ferito in seguito all’attacco di lupi e poi deceduto (12 ore dopo), sia nei confronti di carcasse di conspecifici. Scopo della ricerca era comprendere meglio le reazioni alla morte dei cavalli nati e vissuti liberi (quindi quanto più vicini alle condizioni di vita naturali dei cavalli selvatici veri e propri), nonché il ruolo dell’attaccamento tra madre e puledro e più in generale il ruolo della consanguineità in questo ambito.
Le osservazioni hanno rivelato anzitutto un conflitto tra il legame madre-puledro e il legame madre-branco. La mattina dopo l’attacco dei lupi, quando il puledro era ancora in grado di muoversi, il maschio e il suo harem hanno interagito sia con il puledro che con sua madre. Però, dopo che il puledro caduto a terra per la debolezza non è più stato in grado di muoversi, solo la madre ha continuato a stargli vicino ed interagire con lui, nonostante il gruppo si stesse allontanando. Il maschio a quel punto ha cercato insistentemente, a più riprese, di spingere la madre a riunirsi al branco. La madre, poi disturbata anche da due giovani maschi scapoli, si è infine convinta a seguire il gruppo, abbandonando il puledro ormai morente.
Altri cavalli comunque hanno interagito con il puledro morente e la cosa interessante è che erano individui non imparentati. In particolare due giovani femmine hanno mostrato comportamenti di vicinanza e cura verso il giovane ferito, nonostante tra adulti e puledri estranei spesso siano riportati comportamenti antagonistici. Una delle due, Katsuura, è rimasta a stretto contatto con il puledro infortunato addirittura più della madre, esibendo verso il giovane comportamenti epimeletici, tra cui il leccamento, e atteggiamenti protettivi, simili a quelli che le femmine rivolgono ai loro neonati. Penso non sia un caso che, un anno prima dello studio, anche il puledro di Katsuura avesse subito lo stesso destino: ferito e poi morto in seguito all’attacco di lupi. Questa componente biografica potrebbe quindi aver modificato qualitativamente le sue espressioni relazionali, creando con il piccolo sconosciuto morente un momento relazionale unico, non prevedibile. L’altra femmina, Kitayama, una cavalla ancora immatura dispersasi dal gruppo natale da circa un anno, che non aveva ancora partorito, invece è stata più probabilmente spinta dalla curiosità, un tratto comune nei cavalli giovani, combinato con l’apprendimento sociale.
Per quanto riguarda le interazioni verso le carcasse, si è osservato che i cavalli cercano di non interagire direttamente con i defunti, limitandosi tutt’al più a soffermarsi ed osservarli a debita distanza.
Nel complesso le osservazioni del gruppo di Renata Mendonça hanno confermato che nei cavalli sono presenti espressioni di interesse, vicinanza, interazione e cura verso conspecifici feriti/morenti, variabili da soggetto a soggetto, in base alla biografia e alla presenza di legami affettivi, per quanto non limitate ai famigliari nel proprio gruppo. L’attenzione verso le carcasse di conspecifici defunti è decisamente più tenue o assente e questo aspetto andrebbe probabilmente indagato anche in termini adattativi.
Ritengo che lo studio abbia anche evidenziato come in ambiente selvatico queste espressioni comportamentali debbano scendere a compromessi molto forti con le pressioni ecologiche (in questo caso, tra le altre, la presenza numerosa di predatori), oltre che con quelle sociali (l’istinto gregario, i conflitti tra sessi, i legami tra individui di uno gruppo) e questo probabilmente genera discrepanze tra i comportamenti osservabili in questo ambito in cavalli all’interno di ambienti domestici e in quelli osservabili in cavali ferali o selvatici liberi.
Fonte: Mendonça RS, Ringhofer M, Pinto P, Inoue S, Hirata S (2019) Feral horses’ (Equus ferus caballus) behavior toward dying and dead conspecifics. Primates.