Latte nei mammiferi
Scopriamo cose molto interessanti sul latte.
Sessant’anni fa, nel 1963, la biologa israeliana Devorah Ben Shaul pubblicava “The Composition of the Milk of Wild Animals” (trad. La Composizione del Latte degli Animali Selvatici). Questo studio fu una vera pietra miliare nella comprensione del latte e della sua evoluzione e portò alla luce alcuni dettagli fino ad allora sottovalutati.
Studiando la composizione del latte di 101 specie, la ricercatrice scoprì che la percentuale di grassi, proteine e zuccheri nel latte di ogni specie non era necessariamente predetta dall’appartenenza al gruppo tassonomico, come invece si presumeva.
“Mi aspettavo, naturalmente, che si potessero fare correlazioni importanti sulla base della parentela della specie”, osservò la Ben Shaul “invece scoprii presto che non era così. Mi trovai di fronte a risultati apparentemente irrazionali, come il fatto che un orso grizzly e un canguro avevano un latte dalla composizione quasi uguale…”
La ricercatrice capì che un elemento causale importante per queste apparenti stranezze era la somiglianza nelle strategie di allattamento e in generale in alcune caratteristiche comuni dello sviluppo, dell’etologia e degli ambienti. La composizione del latte deve rispondere ai bisogni fisiologici del piccolo nell’ambiente in cui viene allevato e armonizzarsi con il tipo di accudimento della madre. Fattori come il grado di maturità del neonato, frequenza di allattamento, durata complessiva della lattazione, adattamenti al clima, influiscono tutti sulla composizione del latte.
In genere, le specie con neonati molto precoci, che sono sufficientemente maturi da poter seguire la madre durante il foraggiamento e che hanno quindi la possibilità di alimentarsi con una frequenza relativamente alta (‘nursing on demand’), producono latte ‘più diluito’. Invece i mammiferi che lasciano i piccoli da soli durante lunghi periodi di foraggiamento, come ad esempio l’echidna, il coniglio o il leone, producono un latte ‘più concentrato’, con alto contenuto di grassi, per sostenere i piccoli fino all’allattamento successivo.
C’era quindi un motivo se il latte di un grizzly e quello di un canguro risultavano simili: in entrambe le specie le madri stavano costantemente col piccolo, e questo può alimentarsi grossomodo in qualsiasi momento. Se raffrontato con quello di altri animali, il latte di questi due animali è piuttosto diluito: Contiene circa l’89% di acqua, il 3% di grassi e il 3-4% di proteine. Anche capre, pecore e primati, i cui piccoli sono costantemente al seguito o vengono portati dalle madri stesse, al pari dei grizzly e dei canguri, producono un latte con basso contenuto di grassi. Cani, gatti e roditori, invece, lasciando i piccoli nella tana per ore, producono tutti un latte con più alto contenuto di grassi.
D’altro canto, non tutte le specie con piccoli precoci al seguito mostravano lo stesso tipo di latte: il latte di una renna per esempio, con il suo alto quantitativo di grassi, sembrava paradossalmente più simile a quello di un leone che a quello di altri erbivori pascolatori come capre, cavalli e pecore. Sembrava evidente che l’adattamento al clima rigido e ai comportamenti migratori, che contraddistinguono l’esperienza delle renne in concomitanza delle nascite, fossero fattori fortemente influenti su questa diversa composizione.
Mammiferi marini, come pinnipedi e cetacei, che sono esposti a climi ed acque molto fredde, e che per questo devono sopperire alle altissime richieste energetiche della termoregolazione dei cuccioli e allo stesso tempo fornire le scorte necessarie per sviluppare il grasso sottocutaneo utile a isolare il corpo, forniscono latte con altissimo contenuto di grassi. La foca dagli anelli (Pusa hispida), che partorisce sui ghiacci perenni del mare Artico, nutre per circa due mesi il suo piccolo con un latte contenente circa il 45% di grassi. La foca dal cappuccio (Cystophora cristata), così chiamata per la grossa vescica nasale dilatabile in cima alla testa del maschio, si riproduce nelle banchine di ghiaccio in aree costantemente minacciate dalle tempeste, dalle correnti e da variazioni improvvise della temperatura. In questo ambiente fortemente instabile, questa specie deve necessariamente allattare i suoi piccoli nel più breve tempo possibile e ha infatti il periodo di allattamento più corto di tutti i mammiferi: quattro giorni soltanto (https://cdnsciencepub.com/doi/10.1139/z85-424). Il suo latte ha tuttavia un contenuto di grassi superiore al 60% e durante i quattro giorni con la madre, il piccolo si nutre ogni mezz’ora circa, con un aumento ponderale di circa sei chili al giorno!
Le necessità nutrizionali dei neonati e le caratteristiche del latte si sono evolute congiuntamente in modo da produrre, per ciascuna specie, la composizione più adattativa. Per questo motivo un piccolo cresce meglio se usufruisce del latte della sua specie, mentre se viene nutrito con il latte di altre specie, può andare incontro ad una crescita insufficiente o addirittura ammalarsi e morire.
Nei decenni successivi alla pubblicazione dell’articolo della Ben Shaul, i dati sulla composizione del latte furono integrati aggiungendo campioni provenienti da numerosi animali in momenti differenti del loro allattamento. Emerse così che la composizione del latte non era un parametro fisso nel tempo. La giraffa, per esempio, produce un latte con alto contenuto di grassi e di proteine per i primi dieci giorni di vita del piccolo, e poi passa a produrre una soluzione a contenuto di grassi inferiore. Il motivo è nuovamente da ricercare nel comportamento: durante i suoi primi giorni, il ‘giraffino’ rimane in un posto appartato anche per 12-15 ore alla volta, mentre la madre cerca cibo nei dintorni. Ma, trascorsi questi dieci giorni, il piccolo è in grado di seguire la madre e di prendere il latte quando gli pare.
I canguri producono dai loro due capezzoli due tipi di latte molto differenti. Un tipo, una varietà a basso contenuto di grassi, è destinato al piccolissimo neonato, che raggiungendo il marsupio ad uno stadio di sviluppo poco più che embrionale, vi risiede permanentemente per molti mesi. Il secondo tipo, molto più grasso, viene prodotto per il piccolo che è cresciuto abbastanza per lasciare la tasca della madre, ma che di tanto in tanto continua a succhiare il latte per altri 5-8 mesi, infilando la testa nel marsupio. La cosa sorprendente è che la mamma canguro è in grado di produrre questi due tipi di latte contemporaneamente e questa sua capacità è fondamentale, perché il parto del nuovo piccolo avviene prima che il suo precedente cucciolo sia completamente indipendente. Non c’è rischio che i due giovani si scambino di posto: il canguro più grande succhierà sempre il latte dal capezzolo giusto, perché all’altro è attaccato il più giovane che per qualche tempo non staccherà mai la bocca da lì.
Fermo restando che per alcuni tra questi ed altri animali cominciamo a capire di più, la maggior parte dei dati e dei parametri utili alla comprensione generale del latte non sono ancora disponibili, nemmeno per quelle specie per cui la composizione è già nota (e tantomeno per le migliaia di specie di cui non si è ancora potuta analizzare). Sempre ricordandosi che ciò di cui parliamo è la composizione grezza, cioè la percentuale di grassi, proteine e zuccheri, che non include la descrizione degli specifici acidi grassi e amminoacidi, dei disaccaridi ed oligosaccaridi, o delle centinaia, forse migliaia di altri elementi costituenti il latte: ormoni, minerali, immunofattori, ecc.
Dalle pionieristiche ricerche del ‘63 si è fatta molta strada, ma il latte riserva ancora molti misteri!
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