L’anno scorso un gruppo internazionale di ricercatori al lavoro su una vasta gamma di specie, tra cui elefanti, corvi, balene e scimpanzé, si riuniva a Parma per il workshop internazionale “La cultura degli animali: una nuova frontiera per la conoscenza e la conservazione della biodiversità”. La conclusione di questo importante confronto tra specialisti è stato che la conoscenza culturale degli animali debba essere presa in seria considerazione quando si pianificano sforzi di conservazione. Queste importanti conclusioni, rivoluzionarie rispetto agli attuali approcci, sono state citate recentemente in un articolo scientifico pubblicato sulla famosa rivista americana Science (P. Brakes et al., 2019 Science 10.1126/science.aaw3557).
Nell’attuale cornice operativa, lo sforzo internazionale è teso all’individuazione e conservazione di pool genetici distinti, ma i lavori sugli aspetti sociali delle comunità animali dimostrano che per salvare le specie sociali a rischio è necessario anche capire quali sono gli individui (o i gruppo di individui) depositari di determinate conoscenze fondamentali alla sopravvivenza di tutta la comunità. Per alcuni animali potrebbe essere quindi necessario o addirittura più importante valutare la tutela di ‘pool culturali’, soprattutto laddove le differenze genetiche della popolazione portatrice di tratti culturali unici non siano sufficienti ad elevarla a nuovo taxon. Questo potrebbe essere ad esempio il caso degli elefanti namibiani e della loro peculiare cultura di sopravvivenza nel deserto. Le matriarche depositarie delle conoscenze necessarie alla vita desertica non sono geneticamente differenti dagli elefanti della stessa specie presenti in altre regioni e tuttavia ne sono culturalmente distinte e nessun altro elefante saprebbe come affrontare il deserto come fanno loro, perché queste strategie vengono apprese nel corso di una vita, seguendo l’esempio degli anziani, di quegli anziani vissuti in Namibia. In una prospettiva di crescente crisi climatica e progressiva desertificazione, la tutela di questa cultura specifica potrebbe essere una carta vincente per le future generazioni di elefanti.
Esistono molti altri casi simili a questo, in molte specie animali infatti i giovani inesperti imparano le principali abilità di sopravvivenza osservando gli anziani esperti nel loro gruppo sociale. Questo include imparare come comunicare, come foraggiare in modo efficiente e dove migrare quando le condizioni diventano meno ospitali. Ad esempio, nei cetacei gli elementi culturali includono rotte di migrazione e comportamenti di caccia e nei primati esistono culture di costruzione e/o utilizzo di strumenti per l’apertura delle noci, per la raccolta del miele, per la ‘pesca’ nei termitai e formicai, per l’apertura dei bivalvi. Anche la migrazione di gru e pecore bighorn è vincolata a culture. Queste capacità di trasmissione delle strategie di approccio agli ambienti sono un elemento fondamentale per la resilienza delle specie in ambienti che mutano molto velocemente (soprattutto a causa delle pressioni antropogeniche).
In taluni casi, come riportato ad esempio da Hal Whitehead per le culture dei cetacei, i processi di apprendimento sociale possono anche portare all’emergere di sottogruppi culturalmente segregati in cui possono diffondersi tratti genetici distintivi. Le culture in questo senso potrebbero considerarsi il mezzo per potenziali radiazioni speciative in essere, un motore della biodiversificazione (ne sono un esempio le orche e i capodogli).
In linea con questi punti di vista, Philippa Brakes, dell’Università di Exeter, coautrice dell’articolo su Science ha affermato: “Oltre ai geni, la conoscenza è anche una valuta importante per la fauna selvatica, così come la conservazione della diversità genetica, dobbiamo lavorare per mantenere la diversità culturale all’interno delle popolazioni animali, come serbatoio per la resilienza e l’adattamento. Questo è un importante reframing della nostra comprensione del mondo naturale, che richiederà cambiamenti nella legge internazionale sulla fauna selvatica“.
Il 2020 è l’ultimo anno del decennio delle Nazioni Unite sulla biodiversità. Gli scienziati sottolineano che questo nuovo approccio apre opportunità per modi innovativi di proteggere e comunicare il mondo naturale: capire che altre specie hanno una vita sociale ricca e che condividono informazioni importanti l’una con l’altra, fornisce una nuova prospettiva inestimabile. Con l’aumento del degrado degli habitat in tutto il mondo, queste informazioni possono essere fondamentali per un’efficiente conservazione degli animali.